Coronavirus, covid19, virus, epidemia, pandemia, quarantena, decreti, mascherina, sono le parole che in questo periodo echeggiano e rimbombano nella nostra vita. Da quando un piccolo, invisibile agli occhi umani ma visibile al microscopio, agente patogeno ha iniziato a diffondersi, la nostra quotidianità è cambiata.
A febbraio abbiamo acceso i notiziari e appreso la notizia. Coronavirus. Sembrerebbe nato in Cina da cause ancora non confermate, i complottisti dicono: “per guerra”, i biologici danno la colpa ai pipistrelli, le persone con gli stereotipi si arrabbiano con chi ha gli occhi a mandorla. Siamo semplicemente esseri umani, sistemi teleonomici, pertanto dobbiamo sempre trovare delle cause e delle argomentazioni a cui credere.
In Italia questo virus è arrivato a gennaio, nonostante la televisione abbia iniziato a manifestare il pericolo da metà febbraio in poi. Ricorderò per sempre le parole di mio padre (Chirurgo d’Urgenza al Policlinico Umberto I) tornato a casa dopo un turno massacrante, ci ha detto: ”Questa non è semplice influenza, questa genererà caos”.
All’inizio di questa storia, che sembrerebbe la trama di un film distopico, noi giovani credevamo che fosse tutto così surreale, ci sentivamo invincibili e di fronte ai nostri genitori che ci invitavano a stare attenti ridevamo e, anzi, controbattevamo dicendo che erano troppo paranoici.
Nei primi giorni di marzo la situazione è iniziata a precipitare, ci è stato specificatamente detto di rimanere a casa, pochi lo hanno ritenuto vincolante e si sono dovuti aspettare i decreti-legge e le sanzioni pecuniarie. Da quel momento tutto si è fermato veramente, perché non è il potere della parola che ci limita ma il potere delle leggi, in questo specifico caso dei decreti attesi davanti la televisione oppure delle dirette Facebook del Presidente del Consiglio.
Il primo giorno di quarantena sembrava di essere in vacanza, navigando sulle time-line di Facebook e Instagram comparivano le foto di volti sorridenti con scritto:” Finalmente un po’ di riposo”. Dal quinto giorno è iniziata la fase in cui cercavamo qualsiasi hobby per renderci attivi. Abbiamo cucinato ogni ricetta di Benedetta. Abbiamo aperto le scatole dei ricordi e riguardato tutte le foto di famiglia. Abbiamo fatto zapping su Netflix e finito ogni serie televisiva.
Poi, sono iniziate le lezioni telematiche e di conseguenza il terrore di noi studenti di avere la videocamera e i microfoni accesi, perché seguivamo con il pigiama addosso, il segno del cuscino ancora sul viso e di sottofondo il rumore della macchina del caffè.
Il 24 marzo a salvarci dalla noia, come in linguaggio biblico definiremmo “una manna dal cielo”, è arrivato Disney+ e in meno di una settimana abbiamo rispolverato tutti i film dell’infanzia, dagli Aristogatti a Frozen 2.
Le relazioni durante questo periodo sono cambiate, siamo trasmigrati dai social network alle applicazioni di videochiamata, provandole tutte, Houseparty, Zoom, Whatsapp, Facebook Massenger. Tutti ci siamo detti, almeno una volta, questa volta con le videocamere e i microfoni accesi e con gli occhi pieni di speranza, un mi manchi strozzato dalla carenza di ossigeno, da quell’aria fresca nei nostri polmoni.
La speranza è stato il sentimento che più ci ha accompagnati durante la quarantena, quella per cui ci siamo messi fuori in balcone a cantare e ad applaudire, la speranza di tornare a guardarci negli occhi e di sorriderci sotto le mascherine.
Al tempo del coronavirus tutto si è intrecciato, tutto si è sovrapposto e molte cose si sono intensificate. Abbiamo imparato che cosa è la libertà. C’è stato il tempo di riordinare le nostre idee.
Ora è arrivato il momento di rimetterci in gioco con la consapevolezza che questo periodo ci ha cambiati, perché noi siamo la storia e viviamo nel suo progredirsi.
“Abbiamo cantato e applaudito dai balconi. Abbiamo riempito decine di autocertificazioni per uscire da casa. E quando lo facevamo ci sentivamo come i Blues Brothers, in missione per conto di Dio. Abbiamo imparato a fare il pane. E la pizza. E le lasagne. Le torte, i biscotti, quarantaquattro gatti infila per sei col resto di due. Abbiamo guardato la quarta stagione de La casa di carta. E altre ottantatré serie. Anche in lingua originale perché non sono state doppiate. Abbiamo scoperto le videochiamate. E Whatsapp e Skype e Zoom e HouseParty e aspe’ che hai detto? Non mi prende bene! Aspetta che mi ricollego. Oh, oggi il Wi-Fi è lentissimo. Ti sei bloccato. Ah, ecco ora va bene. Abbiamo sopportato di ritornare in classe alle medie quando speravamo di aver archiviato la faccenda dopo la maturità. Abbiamo trasformato il salotto in palestra e il tappeto in pedana, sacrificato lampadari e lampade e siamo rimasti delusi quando ci hanno spostato Tokyo al 2021. Siamo stati virologi, statisti, economisti, scienziati e intellettuali. Soprattutto critici puntuali di un tempo che abbiamo spiato dalle finestre. Sono passati Pasqua, il 25 aprile, il primo maggio, i compleanni. Sono passati i giorni in fila per fare la spesa e altri giorni sempre in fila per fare la spesa. Poi abbiamo riscoperto il valore dei congiunti ma non dei congiuntivi, di quelli no, o si avevano prima della quarantena o questa resta una causa persa. E infine il lievito, il bene desiderato da tutti e introvabile. Il golden ticket di Willy Wonka. Il boccino d’oro di Harry Potter. Abbiamo avuto i lunedì, tanti lunedì, che erano come delle domeniche. O dei mercoledì. O dei venerdì. Ma mai dei sabato, perché il sabato era il giorno della pizza in casa. Facebook e Instagram grondanti di teglie ammalianti, croccanti, sugose, napoletane, romane, genovesi. Ora il lievito è ovunque, montagne di lievito mai viste prima della quarantena. E domani è di nuovo lunedì. Lunedì, lunedì.”
[F. Basile Giacomini, post Facebook, 17 maggio 2020]